Facciamo i colti una volta tanto: basta parlare di pedivelle, telai e deragliatori, parliamo della storia d’Italia.
L’occasione, per noi ciclisti, oltre alla partenza del giro è la pubblicazione della nuova edizione aggiornata di “La corsa del secolo – Cent’anni di storia italiana attraverso il Giro”, di Paolo Colombo e Gioacchino La Notte (Mondadori 2017, € 14,50); non è ovviamente un semplice bigino sulla storia d’Italia (anzi, almeno nel mio caso, ha il triste – ma temo inevitabile – difetto di far venire a galla la mia ignoranza assoluta sulla Prima Guerra Mondiale), ma una riflessione sul ruolo della bici nella Storia d’Italia. Secondo gli autori, due professori universitari di storia, sono infatti passati 108 anni dalla partenza del primo Giro d’Italia, “nei quali l’Italia e il mondo intero sono profondamente cambiati. E di quei mutamenti nell’economia, nella politica, nella cultura, nella società e nel costume la corsa in rosa è stata specchio e testimone. Ecco perché raccontare il Giro significa anche raccontare la storia dell’ultimo secolo del nostro paese”.
Gli spunti più interessanti sono i più noti: il ciclismo dei pionieri, quando la bicicletta era il simbolo del progresso e del futuro; il Duce che annuncia l’entrata in guerra in Italia il giorno dopo l’arrivo del giro a Milano (un caso o davvero ha aspettato la fine del Giro?); Bartali che vincendo sull’Izoard nel giorno dell’attentato a Togliatti scongiura il rischio di una guerra civile in italia; Coppi che abbandonando la moglie per la Dama Bianca diventa protagonista dei rotocalchi e pioniere delle discussioni sul divorzio, come oggi riuscirebbero a esserlo solo Totti e Hillary. Non so e nessuno saprà mai se il Duce abbia davvero aspettato che il giro finisse per annunciare l’entrata in guerra, né se sarebbe davvero scoppiata la guerra civile se in quella tappa del tour del 1948 Bartali fosse arrivato secondo, ma il solo fatto che si leghino alla bicicletta eventi storici così importanti è già una dimostrazione della sua importanza sociale prima ancora che sportiva, all’epoca.
Il punto, secondo me (e questo libro lo dice tra le righe, forse inconsapevolmente, ed è questo secondo me il suo punto debole), è che anche l’importanza della bici è cambiata nel corso di questi anni.
Fino alla Prima Guerra Mondiale la bici era il futuro, un mezzo per privilegiati, per tanti il sogno di una vita, ed i ciclisti erano ed erano considerati moderni come le bici che guidavano; fino all’inizio del boom economico la bici è diventata il mezzo di trasporto popolare e tutti si identificavano nei campioni che facevano numeri incredibili sullo stesso mezzo usato quotidianamente da loro; con il boom economico, la bici è rimasta semplicemente il mezzo di trasporto di chi non si poteva permettere la macchina e/o la moto.
E con il sorpasso dei motori sulle bici anche i ciclisti sono diventati espressione di un mondo contadino e più tradizionale, che notoriamente non ha mai infiammato le folle nè acceso la fantasia di nessuno; con il tempo, il mondo del ciclismo si è fatto addirittura un vanto del suo legame con il passato, tanto che oggi non c’è modo migliore (e più retorico) per celebrare una qualsiasi vittoria usando l’espressione “d’altri tempi” e che la novità maggiore negli ultimi 10-20 anni nel mondo del ciclismo è l’Eroica, cioè una dichiarata celebrazione del passato.
E, non a caso, dagli anni del boom ad oggi il ciclismo italiano ha avuto grandissimi campioni come Gimondi, Moser, Cipollini, Pantani, Bettini e Nibali, che ciò nonostante non hanno influenzato nessuno quando scendevano dalla bici; nessuno si è mai tagliato i capelli o ha comprato un vestito ispirandosi a Gimondi, nessuno ha mai citato una frase di Moser in un discorso che non fosse sul ciclismo (se non il denigratorio – e quanto mai indicativo dell’immagine del ciclista – “sono contento di essere arrivato uno” di Walter Chiari), nessuno (tranne il Berlusca quando faceva il provolone in spiaggia in Sardegna) è mai andato in giro con una bandana in testa e probabilmente non perché la usava Pantani, nessun ciclista ha mai lanciato una moda, nessuno è più finito sui rotocalchi (benché Cipollini avrebbe probabilmente potuto riempire da solo un paio di numeri di Novella 2000 con i suoi periodi di recupero post giro sulla spiaggia di Viareggio) né alla televisione (salvo la partecipazione di Ignazio Moser e famiglia all’Isola dei Famosi, che ci ha fatto rimpiangere l’epoca del “sono contento di essere arrivato uno”); certo, tutti incollati alla tele quando Pantani faceva la doppietta Giro-Tour, ma né lui né altri hanno influenzato la storia e i costumi d’Italia.
Insomma, fino agli anni 50 la bici era protagonista della storia d’italia; oggi il ciclismo è sempre popolare, è sempre più diffuso in tutte le classi sociali, è forse diventato davvero il nuovo golf, è certamente diventato un mercato dominato da logiche simili a quelle del mondo della moda (vedasi Rapha e tutti i marchi trendy che sono nati sulla scia del suo – meritato – successo), riesce ancora a muovere le masse (basta vedere la caccia al pettorale della 9 Colli o della Maratona delle Dolomiti), ma non a influenzarle nella vita quotidiana.
Tutto cambia, d’altra parte; se nella prima metà del 900 la bici può essere stata protagonista della Storia d’Italia, nella seconda metà ne è effettivamente stata solo testimone, nel senso che vi ha assistito senza modificarla, e probabilmente è giusto così.
Qualcosa forse cambierà con la sempre più diffusa moda del turismo in bicicletta, che potrebbe cambiare l’economia di tante zone d’Italia, a cominciare dal nostro Lago di Como; speriamo, sarebbe bello.
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