Partiamo la mattina presto quando ancora il sole non è sorto. Lasciando la bella casa che ci ospita, mi dico che il momento è ormai arrivato e con lui, purtroppo, anche la pioggia… Non avevo mai pedalato in queste condizioni se non una volta colto di sorpresa da un acquazzone scendendo da Palanzo. Nonostante questo mi sento bene, ho mangiato pasta, riso e patate negli ultimi due giorni, sono carico di Carboflow, ho appena mangiato la mia razione di porridge (avena bollita) e la bici è perfetta nonostante il viaggio in aereo. Quindi ora tocca a me.
Arriviamo in griglia dopo una sgambata di una ventina di minuti, l’ideale per scaldarsi ma anche per poi soffrire il freddo sotto la pioggia che inizia a farsi insistente, tanto che indossiamo la giacca anti-pioggia. Poiché siamo a circa metà del lungo serpentone dei 4.400 partecipanti, partiamo con circa 10’ di ritardo rispetto all’orario prestabilito, le 7:00 di mattina.
Partiamo sotto una pioggia che ormai si è fatta insistente e che mi ritrovo in faccia sollevata dalle ruote di chi mi sta davanti. Perdo immediatamente i miei compagni di viaggio: Gio credo sia dietro con un altro gruppetto di ciclisti che “la vogliono prendere con calma”, Simone invece l’ho già visto tenere un ritmo e una cadenza a me non congeniali. Inizia la mia Mallorca312 in solitario e per 14 ore di sella.
Non c’è la foga, né i pericoli corsi al via della Diavolo in Versilia, anzi, la partenza è molto tranquilla con un’andatura tutt’altro che impegnativa che ci porta fino alla prima salita verso il Coll del Puig Major. Guardo e riguardo il foglietto che mi sono preparato la sera prima in un impeto di organizzazione per evitare di dimenticarmi che dovrò superare 4.600m di dislivello, mi riguardo i chilometri che dovrò affrontare e i posti di ristoro dove fermarmi.
La salita si inerpica per una trentina di chilometri lungo la montagna con una pendenza a me sconosciuta: dolce e mai aspra, nulla a che vedere con le salite che ho affrontato per arrivare allenato fino a qui. Il serpentone dei ciclisti lo si può scorgere per chilometri sia in avanti sia indietro ed è uno spettacolo meraviglioso, in un contesto quasi lunare dove la roccia bagnata ha lo stesso colore delle nuvole grigie che avvolgono le cime e impediscono di scorgere la valle che abbiamo appena lasciato.
Inizio a guardarmi attorno e scorgo diversi personaggi che saranno partecipi della mia avventura, chi per pochi metri chi fino all’arrivo. Lo spagnolo che urla al gruppo che sta accompagnando, fastidioso perché non mi lascia concentrare e mi distrae continuamente. Il ciclista con una protesi che sembra non accusare minimamente la salita, anzi sembra a suo agio più che a passeggio in una strada affollata. Il matto su una Brompton che viene richiamato dal gruppo con un simpatico “desrespecto!”: noi a soffrire su costosissime bici in carbonio e tu ci sorpassi con una bici pieghevole? Che affronto!
Arrivo al primo ristoro dove riempio per la prima volta le mie borracce con il liquido che mi offrono i gentilissimi volontari: sembra piacevole al gusto, almeno così mi pare al primo sorso. Evito il fango che si è creato attorno al tendone e riparto velocemente verso la fine della prima salita, percorrendo dei bellissimi e rilassanti tratti in pianura lungo due grandi laghi artificiali. Un veloce falsopiano in discesa mi porta all’ultimo tratto che conclude la prima salita.
Scollino e mi chiudo tutte le zip dei vestiti che indosso: la maglia Isadore svolge egregiamente il suo lavoro, morbida e calda quando deve, lo smanicato traspirante e la giacca anti-pioggia. Mi butto in discesa facendo attenzione perché l’asfalto anche se in ottime condizioni è pur sempre bagnato. Si tratta di una lunghissima discesa guidabile e veloce, me ne accorgo subito perché le mie Vittoria in grafene si comportano egregiamente. Mi sento veloce e sicuro come non mi capitava da tempo. Senza forzare inizio a superare tanti ciclisti che invece procedono con molta più cautela, il che mi fa pensare che forse sto rischiando troppo. Ma mi sento bene e supero curve e tornanti senza sentire il minimo rischio e con le ruote attaccate al terreno. Vedo diversi ciclisti a bordo strada intenti a sostituire la camera d’aria, speriamo non capiti anche a me, penso.
In fondo alla discesa mi ritrovo sulla strada un’ambulanza che sta portando via una povera ciclista scivolata sulla ferrovia bagnata che attraversa la strada. Gli organizzatori intimano di andare piano per evitare cadute, come non ascoltarli? Mi stacco e supero l’ostacolo a passo d’uomo. Guardo la faccia della ciclista, forse sta già pensando all’anno prossimo…
Da questo momento in poi dovrò affrontare una serie di salite di 2-3 chilometri massimo, sempre molto dolci e con pendenze per nulla proibitive, seguite da discese guidabili e veloci, un tratto di mangia e bevi che passa per piccoli borghi dove ci aspettano bambini festanti, curiosi che guardano le bici passare, paesi addobbati a festa, ma anche svuotati per permettere il nostro passaggio, sempre e rigorosamente in strade senza macchine dove noi siamo gli unici che possono attraversare il centro del paese con un mezzo meccanico. Il nostro paradiso…
Arrivo al bivio della 167 e non mi pongo nemmeno la domanda, giro e vado verso i percorsi lunghi. Al secondo ristoro giungo dopo circa 100Km dalla partenza sentendomi bene: gambe cariche e cuore con le giuste pulsazioni. Mi fermo soprattutto perché non riesco a trattenere oltre i miei bisogni fisiologici e una fitta ai reni è il sintomo che non posso più aspettare. Mangio soprattutto frutta e pane con formaggio. Mi faccio riempire le borracce, in questo caso una con l’acqua, perché la bevanda fornita dall’organizzazione inizia a nausearmi. Poco dopo scoprirò che non potrò neppure sentirne l’odore. Prendo qualche barretta, anche se le mie portate da casa sono insuperabili, e un paio di gel. Riparto scavalcando qualche bici e recuperando la mia appoggiata a un albero trovato sgombro.
Gli scorci che assaporerò da qui in poi sono indimenticabili. Passiamo infatti nel cuore della Sierra de Tramontana, un’area che nel 2011 è stata inserita nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. Mi guardo attorno e scorgo faraglioni nel mare blu, paesi incastonati tra le colline degradanti, terrazzamenti coltivati a ulivi e strade tortuose che vi passano attraverso. Un paesaggio che mi ricorda le nostre Cinque Terre, ma con un mare più blu e una vegetazione più rigogliosa. Mi godo il sole che sta facendo capolino tra le nuvole, togliendomi la giacca e abbassando i manicotti. Mi sento veramente bene e continuo a pedalare al mio ritmo, incontrando nuovi personaggi, tra cui quello che soprannomino “Rapha Man” perché vestito da capo a piedi con abbigliamento Rapha e con il logo bianco stampato a grossi caratteri sul pantaloncino. Lo vedo spingere in salita e lo recupero in qualche discesa, un balletto che si ripete più di una volta lungo questa strada costiera.
La salita che porta all’ultimo ristoro non è come le altre. La pendenza raggiunge anche il 12% e dopo 150Km qualcuno inizia a sentirne il peso, così come le mie gambe. Metto il 34×29 e salgo con costanza al mio solito ritmo guardando il cardio-frequenzimetro, stando attento a non salire mai oltre i 150 bpm. Dopo 5 Km per me molto duri, ma anche i ciclisti attorno a me li ho sentiti sbuffare e sorprendersi della pendenze superate, arrivo al ristoro dei 150Km in buono stato, pensando di aver superato un dislivello maggiore della Diavolo in Versilia con già alle spalle più chilometri.
Riparto convinto di aver finito le salite, in realtà ne manca ancora una, molto simile alla precedente, corta (5Km) ma altrettanto dura. Me la lascio alle spalle e scendo verso la pianura dove cerco uno dei primi treni che mi dovrebbe portare verso i 200Km. Prendo il primo gruppo che si sta formando proprio in fondo alla discesa. Guardo chi mi sta attorno e vedo polpacci scolpiti e gambe super-tornite, i primi dubbi circa la mia scelta iniziano a farsi largo. Scorgo anche Rapha-man: potrebbe andare bene! Invece inizia la sofferenza.
Strava mi ricorda che in questo tratto ho tenuto una media di 40Km/h, infatti pur stando rigorosamente a ruota percepivo che le gambe stavano spendendo troppa energia, considerando che ero “solo” a poco più della metà della 312. Guardandomi alle spalle però scorgo il vuoto e mi preoccupa dover pedalare da solo, in mezzo a una pianura che piatta non lo è mai e con un vento laterale fastidioso.
Ciononostante lungo uno dei tanti strappi, inizio a perdere contatto e rimango solo forse nel posto peggiore per non avere compagni con cui condividere lo sforzo. Mancano una quindicina di chilometri al prossimo ristoro… tanti, forse troppi per pensare di arrivare senza scoraggiarsi. Vedo qualcuno che buca e penso che se mi dovesse capitare in questo momento lascerei la bici ai bordi della strada e mi farei accompagnare al traguardo. Insomma la mia testa si sta ormai arrendendo. I chilometri passano lentamente, quasi come se mi avessero messo un paracadute sulle spalle. Continuo a guardare il Suunto, ma i metri scorrono lentamente. Il vento mi soffia contro e non scorgo nessuno in grado di imbastire un treno. Con il senno di poi e con i consigli dei miei compagni, mi sarei dovuto quasi fermare ad aspettare che passasse qualcuno a raccattarmi con un treno che andasse all’andatura giusta.
Sta di fatto che arrivo al ristoro dei 190Km cotto: affamato e indebolito. Il ricordo delle condizioni in cui mi trovavo prima di questo tratto mi lascia incredulo: come ho fatto a ridurmi così per quel dannato treno di velocisti! Detto questo inizia a far capolino l’idea che per 30km non posso buttare via tutto quanto ho fatto finora. Mi siedo al sole, mangio un meraviglioso toast con il prosciutto ancora congelato, bevo una coca gelata, vado in bagno e rimango fermo al sole per 4/5 minuti. Mi desto perché nel frattempo qualche nuvola ha vinto la battaglia con il sole e sta iniziando a piovere, mi convinco che sia arrivato il momento di ripartire.
Mi sento molto meglio. In fondo mancano “solo” 40Km all’arrivo della 232. Mi passano 4 ciclisti di un club spagnolo e mi aggrego, vanno a 35Km/h con un’andatura meravigliosa, senza strappi né forzature. Mi metto a ruota e superiamo tanti ciclisti lungo la stradina di campagna che passa tra muri a secco. Mi trovo in seconda posizione alle spalle di un ciclista che ormai nella mia testa è diventato il mio salvatore, ogni tanto qualcuno lo supera ma strappa e quindi lo lascia andare scuotendo vigorosamente la testa. Decido di girarmi per capire in quanti siamo: il rumore del nostro passaggio inizia a farsi intenso. Con mia sorpresa mi accorgo che tutti coloro che abbiamo sorpassato lungo il percorso si sono in qualche modo aggregati e conto a spanne una cinquantina di ciclisti che pedalano grazie al nostro lavoro, ma soprattutto di quello del mio salvatore con la maglietta verde. In un momento di calma riesco anche a ringraziarlo per il lavoro che sta facendo perché ormai stiamo entrando a Playa de Muro, il punto di arrivo della 232.
Ormai non ho più dubbi, mi sento relativamente bene e la distanza di 80Km non mi spaventa, in fondo è come completare uno dei classici giri della domenica: Menaggio andata e ritorno.
Passo sulla linea del traguardo comune a tutte le 3 varianti e continuo a seguire il treno che si sta riducendo a una ventina di ciclisti. Intravedo un cancello con una persona nel mezzo che segnala le due opzioni: arrivo per la 232 o il tratto finale per la 312, mi sposto verso la scelta della 312 ma chi mi sta di fronte scarta all’ultimo e mi impedisce di entrare nel cancello giusto: “noooooooo!” urlo. “¿Che pasa?” Penso subito a come rimediare per ritornare nel percorso che voglio percorrere. Perdo un buco tra le transenne perché comunque sto andando ancora a una buona velocità, mi convinco che l’unico modo sia fermarsi e passare sotto al cordone. Riparto, ma sono 200m dietro al “mio” treno. Inizio a recuperare da solo, aumentando il ritmo e vedendo che piano piano la distanza si sta colmando, nel giro di 2Km rientro e l’inglese che mi è stato a ruota commenta con un “good job!”. Un piccolo sforzo, vero, ma dopo 230Km anche uno sforzo minimo lascia il segno. Riesco a stare a ruota per una trentina di km, lungo un sali e scendi su una strada provinciale più simile a un’autostrada, e che lasciamo per iniziare un nuovo tratto di mangia e bevi tra strade strette con gli ormai consueti muri a secco e le pecore che perplesse ci guardano passare.
In uno dei numerosi strappi perdo contatto con il gruppo e mi ritrovo di nuovo da solo. Cinquanta metri di buco che nonostante tutti i miei sforzi non riuscirò più a colmare. Provo anche a rischiare con una curva a gomito, dove un poliziotto mi intima di rallentare. Arrivo fino a 10 metri ma poi desisto: sono stanco.
Inizio però a vedere dei riferimenti ad Artà, il che significa che non sono lontano dalla festa di cui abbiamo sentito parlare e visto filmati festosi. Supero l’ultima salita contro-vento a forse 5Km/h e inizia un lungo rettilineo dove dei ragazzi di un gruppo musicale suonano festosi e mi strappano un sorriso. Una ragazza parte con una bicicletta di legno nella mia stessa direzione e ci affianchiamo per qualche metro scambiandoci un sorriso.
Scendo in città, finalmente. Giro una curva ed eccomi nella festa. Musica, gente, birra e ciclisti rilassati: ma sono solo io a essere stanco morto?
Dietro alla festa trovo qualche ciclista seduto a mangiare e a bere, non sono l’unico che invece di pensare alla birra si mangia banane e arance, insieme alla solita coca gelata. Mi siedo e mi faccio lavare le mani da un volontario, di nuovo mi sorprendo della gentilezza dei volontari, uno dei quali mi porta una nuova fetta di arancia che mi è caduta dalle mani. Ormai mi convinco di avercela fatta, al punto che prendo il telefono e chiamo casa raccontando (urlando) la mia gioia.
Riparto agganciandomi ai pedali con qualche difficoltà. Mi affianco a una sagoma che mi pare di riconoscere: Rapha Man! Mi racconta di quanto sta soffrendo e di come questa 312 sia più dura di quella dell’anno scorso. Jean-Luc, come il capitano di Star Trek che preferisco e un po’ a Picard in effetti ci assomiglia, viene da Londra e arriverà al termine qualche minuto prima di me. Facciamo una quindicina di chilometri insieme e lo lascio in uno dei lunghi strappi lungo la superstrada finale che chiude il loop da Artà.
Mancano ormai una decina di chilometri e supero un ciclista che mi pare annaspare e ne trovo un altro che si mette a ruota. Lo trascino con me per gli ultimi 5 chilometri, arrivando nell’ultimo rettilineo finale insieme, e insieme urliamo all’unisono alla donna che nonostante i segnali di un poliziotto entra nella rotonda in cui stiamo passando. Per nostra fortuna si blocca e ci lascia passare.
Arriviamo sul traguardo insieme e ci stringiamo la mano mentre lui mi ringrazia per l’ultimo sforzo profuso. Alzo le mani al cielo e per poco la bici non mi sfugge da sotto il sedere, sobbalzando sul cavo posto sotto il traguardo. Ce l’ho fatta! In 13h06’59” ho completato la mia Mallorca312.
Per la mia poca esperienza in queste manifestazioni, credo di poter dire che l’organizzazione sia stata impeccabile, dalla partenza all’arrivo: strade sicure e personale disponibile, sempre. La pioggia non ha rovinato questa giornata di festa, ma è riuscita a rendere ancora più epica la mia personalissima avventura. Tecnicamente credo di essere arrivato ben preparato, grazie anche alle esperienze vissute alla Randolario e alla Diavolo in Versilia. I 4.600m di dislivello non mi sono pesati tanto quanto gli strappi su alcuni muri e le andature fuori giri, che credo di avere pagato soprattutto per la mia inesperienza. Ho anche capito quanto sia importante gestire la propria testa in certi momenti chiave e come il proprio limite sia più dettato dalle sensazioni che dall’effettivo stato delle cose, una banalità per qualcuno, non per chi, come me, non ha avuto esperienze di maratone o di eventi con chilometraggi così impegnativi.
Qualcuno mi ha chiesto se la rifarei. Assolutamente sì, mi piacerebbe provare il vecchio percorso lungo il perimetro dell’isola, certo che, come mi ha confidato Rapha Man, rispetto a questa 312 sarebbe una passeggiata…
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